Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno depositato il giorno 11 luglio u.s. l’attesa sentenza sul criterio di riconoscimento dell’assegno di divorzio, intervento chiarificatore che è stato sollecitato dal primo Presidente della Suprema Corte per risolvere il contrasto di giurisprudenza esistente in materia, alla luce della innovativa sentenza n. 11504/2017 (sentenza “Grilli”), con cui è stato abbandonato il consolidato orientamento che parametrava l’assegno divorzile al tenore di vita dei coniugi.
I motivi di tale intervento
L’art 5, comma 6, della Legge n. 898/1970, stabilisce che “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive …”.
Dal testo sopra riportato non si evince alcun parametro di riferimento da considerare per valutare l’adeguatezza o meno dei mezzi e proprio questa indeterminatezza ha dato luogo a due orrientamenti giurisprudenziali contrapposti: l’uno – cristallizzatosi con le Sezioni Unite del lontano 1990 (sentenza n. 11490) – che ravvede l’inadeguatezza dei mezzi quando il coniuge richiedente l’assegno divorzile non abbia mezzi adeguati per mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto durante il matrimonio, l’altro – affermatosi di recente con la ota sentenza n. 11504/2017 – che individua il paramentro di inadeguatezza nella non autosufficienza economica del richiedente.
La soluzione interpretativa delle S.U.
La Suprema Corte è partita da una premessa: la società e, quindi, anche il modello familiare è notevolmente mutato rispetto a una volta. Per questo motivo, il criterio del tenore di vita, cristallizzatosi con le Sezioni Unite del 1990 non è più attuale e “adatto” al mutamento sociale avvenuto e, se venisse ancora considerato, si rischierebbe, oggi, di legittimare rendite parassitarie.
Partendo da questa premessa, dunque, è necessaria un’interpretazione dell’art. 5, comma 6, L. 898/1970 più coerente con gli standards europei e con il modello costituzionale del matrimonio (artt. 2, 3 e 29 Costituzione), che si fonda sulla uguaglianza e pari dignità dei coniugi, sulla libertà di scelta (sposarsi e divorziare) e autoresponsabilità.
L’assegno divorzile, per natura e per legge, ha funzione assistenziale per l’ex coniuge quando questi non ha mezzi adeguati e non sia in grado di procurarseli per ragioni obiettive.
Il parametro di adeguatezza, secondo la Corte, va valutato in concreto (non solo riferendosi strettamente alla mancanza dei mezzi o insufficienza oggettiva), basandosi anzitutto sulle condizioni economico-patrimoniali dei coniugi e tenendo conto degli altri indicatori dell’art. 5, comma 6, L. n. 898/1970, soprattutto del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi. Altri fattori da considerare sono la durata del matrimonio e le effettive capacità professionali e reddituali, anche in relazione all’età e al mercato del lavoro.
Secondo i Giudici di legittimità, occorre indagare se la disparità della situazione patrimoniale ed economica degli ex coniugi sia dipesa dalla modalità di conduzione della vita familiare e, quindi, da precise scelte degli stessi in costanza di matrimonio, per cui uno dei coniugi ha deciso di “sacrificare” le proprie aspettative professionali e reddituali per assumere un ruolo esclusivo o prevalente all’interno della famiglia creata (considerato quale “contributo fattivo alla formazione del patrimonio comune e a quello dell’altro coniuge”) e, nel caso in cui lo squilibrio economico-patrimoniale abbia questa “radice causale”, esso va tenuto in considerazione nella valutazione dell’adeguatezza.
Le Sezioni Unite, in buona sostanza, hanno confermato quanto già statuito dalla sentenza Grilli, ovverosia che la funzione dell’assegno non è finalizzata a ricostruire il tenore di vita coniugale,
ma ha finalità perequativa-compensativa discendente dal principio costituzionale di solidarietà, che “conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza, secondo un parametro astratto+ ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente. Il giudizio di adeguatezza ha, pertanto, anche un giudizio prognostico riguardante la concreta possibilità di recuperare il pregiudizio professionale ed economico derivante dall’assunzione di un impegno diverso. Sotto questo specifico profilo il fattore età del richiedente è di indubbio rilievo al fine di verificare la concreta possibilità di un adeguato ricollocamento sul mercato del lavoro”.
Riassumendo, il riconoscimento del diritto all’assegno, a detta delle Sezioni Unite, va valutato:
- considerando in maniera integrata tutti gli indicatori contenuti nell’incipit dell’articolo 5, comma 6, della legge numero 898/1970, perché “in quanto rilevatori della declinazione del principio di solidarietà, posto alla base de giudizio relativistico e comparativo di adeguatezza”;
- incentrando tale valutazione sull’aspetto perequativo-compensativo e fondandola sulla comparazione effettiva delle condizioni economico-patrimoniali alla luce delle cause che hanno determinato la successiva situazione di disparità;
iii. procedendo a un accertamento probatorio rigoroso del rilievo causale dei predetti indicatori sulla sperequazione determinatasi.
Un inciso. I giudici, nell’affermare il suddetto principio, ne hanno sottolineato l’elasticità, dovendo necessariamente essere adattato alle fattispecie concrete: “questo criterio deve essere calato nel “contesto sociale” del richiedente, un contesto composito formato da condizioni strettamente individuali e da situazioni che sono conseguenza della relazione coniugale”. Infatti, “lo scioglimento del vincolo incide sullo status ma non cancella tutti gli effetti e le conseguenze delle scelte e delle modalità di realizzazione della vita familiare”.
Avv. Romina Zanvettor
Avv. Alessandra Tagliapietra
Le Sezioni unite sull’assegno divorzile: ecco le novita’
Di frequente capita che i clienti chiedano una consulenza in merito alla stipulazione di una polizza vita in favore di un soggetto – che la maggior parte delle volte è anche erede -, perché convinti che, al momento della morte del contraente, possano insorgere delle problematiche tra il beneficiario e gli eredi.
Prima di entrare nel merito della questione, spieghiamo brevemente cos’è una polizza vita.
Trattasi di un contratto stipulato tra un contraente e una compagnia assicurativa che, a fronte del versamento di uno o più premi, garantisce al beneficiario un capitale rivalutato al verificarsi delle condizioni contrattuali.
La polizza vita viene sottoscritta, in genere, come forma di protezione personale per sé o per i propri cari, oppure una garanzia rispetto a un possibile rischio: il ramo vita delle assicurazioni tutela, infatti, l’assicurato nei casi di morte, infortunio, vecchiaia, invalidità o malattia.
Esistono tre categorie di polizze: polizza vita caso morte, polizza caso vita e polizza mista. La prima di queste categorie, che è quella di cui ci occuperemo, attribuisce il premio al beneficiario o ai beneficiari al momento della morte dell’assicurato.
Ma nel momento in cui l’assicurato muore e un soggetto entra nella disponibilità di una somma di denaro a titolo di beneficiario della polizza, cosa succede? Gli eredi possono in qualche modo rivalersi sulla somma liquidata dall’assicurazione?
Ebbene, la polizza vita non rientra nell’asse ereditario.
Infatti l’art. 1920 comma 3 c.c., norma che disciplina l’assicurazione a favore di un terzo, stabilisce che, per effetto della designazione, “il terzo acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione”.
Questo perché si tratta di un atto tra vivi, con la conseguenza che il beneficiario acquista, per effetto della designazione, un diritto proprio nei confronti dell’assicurazione. Il diritto al pagamento all’indennità non è acquistato a titolo di legato o di quota ereditaria, ma iure proprio sulla base della promessa fatta dall’assicuratore di pagare il capitale al verificarsi dell’evento assicurato.
In sostanza, la morte dell’assicurato, evento assicurato, rappresenta il mero momento di consolidamento del diritto già acquisito inter vivos (tra vivi) e non mortis causa (a causa di morte) e, quindi, l’obbligazione di pagamento che grava sull’assicuratore discende esclusivamente dal contratto di assicurazione e dalla designazione del beneficiario.
Come ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza numero 26606 del 2016, “nel contratto di assicurazione per il caso di morte, il beneficiario designato acquista, ai sensi dell’art. 1920, comma 3, c. c., un diritto proprio che trova la sua fonte nel contratto e che non entra a far parte del patrimonio ereditario del soggetto stipulante e non può, quindi, essere oggetto delle sue disposizioni testamentarie né di devoluzione agli eredi secondo le regole della successione legittima …“.
La dottrina e la giurisprudenza sono quindi concordi nel ritenere che il capitale corrisposto dall’assicurazione, non cadendo in successione, non è soggetto all’imposta di successione e non si computa per formare la quota per gli eredi e per calcolare se vi sia lesione della “legittima”, ovverosia di quella porzione che la legge riserva ai cd. “legittimari” e che, in nessun caso, può essere diminuita.
In caso di lesione di legittima, il beneficiario sarà tenuto soltanto a restituire i premi che l’assicurato aveva versato nel tempo all’assicurazione, perché configurabili come donazioni indirette eccedenti la quota di cui il testatore poteva disporre.
Sul punto, si richiama la sentenza n. 6531/2016 della Corte di Cassazione, che si è espressa in tal senso: “Deve escludersi che il contratto di assicurazione sulla vita in favore dell´erede legittimo o testamentario possa qualificarsi quale donazione indiretta del contraente in favore dei terzi designati. Ed infatti la corresponsione dell´indennità in favore del beneficiario, pur se derivante dal contratto stipulato dal contraente assicurato a favore del terzo designato, non determina un corrispondente depauperamento del patrimonio del contraente assicurato e, pertanto, non può ritenersi costituire oggetto di un atto di liberalità ai sensi dell´art. 809 c.c. assoggettabile alle norme sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari. Il solo depauperamento che si verifica nel patrimonio del contraente assicurato è costituito dal versamento dei premi assicurativi da lui eseguito in vita e, pertanto, solo le somme versate a tale titolo possono considerarsi oggetto di liberalità indiretta a favore del terzo designato come beneficiario, con conseguente assoggettabilità all´azione di riduzione proposta dagli eredi legittimi”.
Ovviamente, questo principio si traduce, sul piano pratico, in un grande vantaggio sia per il beneficiario che per il contraente la polizza, dato che entrambi i soggetti avranno la certezza massima che il capitale non sarà mai intaccato da nessuno.
Non si dimentichi, infine, che vi sono ulteriori benefici dalla stipulazione di una polizza vita, quali la detrazione fiscale del 19% sulle rate dei premi per la parte “copertura caso morte”, sino a un importo massimo detraibile di € 530,00 per anno d’imposta, l’impignorabilità e l’insequestrabilità del capitale (con le dovute distinzioni).
Tutte queste ragioni giustificano, evidentemente, la larghissima diffusione dell’istituto, che sempre più spesso viene utilizzato dalle persone.
Avv. Romina Zanvettor
Avv. Alessandra Tagliapietra
Polizza vita e asse ereditario
L’attività di intermediazione finanziaria è, di per sé, connaturata da una situazione di asimmetria informativa tra l’intermediario e l’investitore, in conseguenza della quale il primo dispone di determinate informazioni, mentre il secondo ne è generalmente privo e impossibilitato a ottenerle autonomamente.
Al fine di porre rimedio a tale situazione, il legislatore ha imposto stringenti e precisi obblighi informativi che l’intermediario è tenuto a rispettare e che sono contenuti oggi nell’art. 21 T.U.F. (D.Lgs. n. 58/1998), che prevede testualmente che tale soggetto debba “acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati” (art. 21, comma 1, lett. b)[1] e nel Regolamento Intermediari n. 20307/2018, che ha da poco abrogato il previgente Regolamento n. 16190/2007[2].
Analizzando la disposizione, si nota anzitutto che il flusso informativo procede in due direzioni: da un lato le informazioni provengono dal cliente e vanno “raccolte” dall’intermediario (cd. informazione passiva), dall’altro vengono rese dall’intermediario nei confronti del cliente, affinché quest’ultimo, comprendendo appieno la natura del servizio offerto, i suoi rischi e rendimenti, assuma in modo consapevole decisioni di investimento o disinvestimento per il suo tramite (cd. Informazione attiva).
Per quanto concerne la prima tipologia di doveri informativi, ovverosia la raccolta delle notizie e informazioni fornite dal cliente e la sua “profilatura”, quel che si rileva è che l’intermediario non deve rimanere relegato in un ambito di mera elaborazione di dati formalmente comunicatigli, ma deve attivamente compartecipare a tale attività, verificando scientemente le dichiarazioni del cliente, la comprensibilità delle sue domande da parte dell’investitore e anche eliminare le eventuali incongruenze che potrebbero risultare nella scheda finanziaria.
Nella determinazione delle informazioni da raccogliere l’intermediario deve anzitutto tenere conto della natura del cliente: ad esempio, la sua età e la condizione lavorativa costituiscono elementi fondamentali al fine della valutazione di adeguatezza di un eventuale investimento, atteso che, l’impatto di una errata scelta finanziaria, certamente, andrebbe a influire sulla situazione patrimoniale dell’investitore, con poche possibilità di poter ripristinare la situazione patrimoniale quo ante.
Dal dettato dell’art. 21 T.U.F., si evince inoltre che l’informativa non si esaurisce nella sola fase iniziale del rapporto contrattuale, ma si estende all’intera durata del contratto, per espressa previsione dello stesso articolo, che utilizza l’avverbio “sempre” nella parte in cui stabilisce che l’intermediario si adoperi affinché il cliente sia adeguatamente informato.
- Alla base della complessiva finalità della previsione dettata in tema di obblighi informativi dell’intermediario finanziario sta, invero, la considerazione secondo cui ogni investitore razionale è avverso al rischio, sicché il medesimo, a parità di rendimento, sceglierà l’investimento meno aleatorio e, a parità di alea, quello più redditizio, se non si asterrà perfino dal compiere l’operazione, ove l’alea dovesse superare la sua propensione al rischio.
La maggior parte dei contenziosi in questa materia trae origine dalla mancata informativa fornita all’investitore dall’intermediario in occasione delle operazioni di investimento, poiché, nel caso in cui il risparmiatore investa il proprio denaro acquistando uno strumento finanziario senza essere stato adeguatamente informato circa i rischi dell’operazione e la natura del prodotto finanziario, quest’ultimo (l’intermediario) è tenuto a risarcire il danno subito.
Va preliminarmente ricordato, che, nei giudizi di risarcimento danni, l’onere di aver adempiuto diligentemente ai propri doveri informativi è posto in capo all’intermediario, ai sensi dell’art. 23 comma 6 T.U.F.[3].
La giurisprudenza formatasi in tema di violazione degli obblighi informativi è vastissima, ma il denominatore comune cristallizzatosi nel tempo è l’esigenza di fornire al cliente un’informativa sostanziale, concreta e dettagliata, che non possa, cioè, esaurirsi nella mera consegna dell’Informativa Precontrattuale o di altra documentazione (Prospetto Informativo, test di adeguatezza e appropriatezza, allegati al contratto di intermediazione finanziaria), attesa la genericità dell’informativa ivi contenuta, che non è idonea a far comprendere al cliente le caratteristiche e i rischi sottesi all’investimento in un prodotto finanziario (ex multis Trib. Roma, 8 ottobre 2004, n. 29207; Trib. Genova, 15 marzo 2005; Trib. Roma, 25 maggio 2005; Trib. Firenze, 30 maggio 2004; Trib. Roma, 29 luglio 2005, n. 17539).
Sul tema si riporta una recente sentenza dei Giudici di legittimità: “Nella prestazione di servizi di investimento, la norma dell’art. 21 TUF impone all’intermediario di fornire all’investitore un’informazione adeguata in concreto, tale cioè da soddisfare le specifiche esigenze del singolo rapporto, avuto riguardo alle caratteristiche personali e alla situazione finanziaria del cliente. Al fine di assolvere tale obbligo in relazione alla singola operazione di investimento, l’intermediario deve fornire indicazioni idonee a descriverne la natura (la quantità e la qualità dei prodotti in questione), ed a rappresentarne la specifica rischiosità” (Cass. Civ., 28 febbraio 2018, n. 4727).
Si pensi che è stato addirittura affermato che la produzione di un’attestazione, sottoscritta dal cliente, di conformità degli investimenti eseguiti ai suoi obiettivi di investimento e di consapevolezza dei rischi espressi nel documento generale non è di per sé idonea ad assolvere l’onere della prova, gravante sull’intermediario, circa la comunicazione di informazioni tali da assicurare la consapevolezza, da parte del risparmiatore, della natura dell’operazione e dei relativi rischi (cfr. Trib. Palermo, 17 gennaio 2005).
Né tantomeno l’eventuale rifiuto da parte dell’investitore di fornire informazioni sulla propria situazione finanziaria, i propri obiettivi di investimento e la propensione al rischio, può esimere la Banca dall’informare il medesimo sul prodotto finanziario che si accinge ad acquistare: la mancanza di queste notizie dovrebbe indurre l’intermediario, semmai, a considerare prudenzialmente l’investitore quale soggetto con basso profilo di rischio e, quindi, ad astenersi dall’effettuare le negoziazioni e i collocamenti rischiosi (cfr. Trib. Catania, 19 giugno del 2008: “in assenza di informazioni provenienti dal cliente e altresì in assenza di informazioni reperibili in altro modo sulla sua situazione patrimoniale e propensione al rischio, si possono (al più) ritenere come adeguate solo le operazioni di basso livello di rischio”).
Il profilo di rischio, la natura dello strumento finanziario, comprendenti l’eventuale rischio di liquidità, devono, in sostanza, essere illustrati con apposite analisi e simulazioni. In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 2535 del 2016, stabilendo che: “la forma della comunicazione deve essere comprensibile ed appropriata affinché i clienti possano ragionevolmente comprendere la natura del servizio di investimento e del tipo specifico di strumenti finanziari interessati e i rischi ad essi connessi e, di conseguenza, possano prendere le decisioni in materia di investimenti in modo consapevole”.
E ancora: “Non è sufficiente una spiegazione generale delle caratteristiche delle componenti derivative elementari, ma occorre una dettagliata e puntuale informazione in merito al rischio, all’effetto leva, alla liquidità del prodotto, alla volatilità del prezzo; non essendo ammissibile l’utilizzo di moduli informativi prestampati e standardizzati” (App. Milano, n. 2069 del 2016).
Alla luce di questi orientamenti, si può agevolmente sostenere che vi è concreta tutela legale degli investitori nei confronti degli intermediari che violano gli obblighi informativi nello svolgimento dell’attività di intermediazione finanziaria.
Avv. Romina Zanvettor
Avv. Alessandra Tagliapietra
[1] A onor di cronaca, all’intermediario è imposto un dovere informativo sin dagli albori della disciplina di settore – e, quindi, anche da prima dell’entrata in vigore del Testo Unico Finanziario -, basti pensare all’art. 6 L. n. 1/1991 (“Nello svolgimento delle loro attività le società di intermediazione mobiliare: …. d) devono acquisire preventivamente le informazioni sulla situazione finanziaria del cliente rilevanti ai fini dello svolgimento delle attività di intermediazione mobiliare; e) devono operare in modo che il cliente sia sempre adeguatamente informato sulla natura e sui rischi delle operazioni, sulle loro implicazioni e su qualsiasi atto, fatto o circostanza necessari per prendere consapevoli scelte di investimento o di disinvestimento”) e all’art. 17 del D.Lgs n. 415/1996 (“nella prestazione dei servizi previsti dal presente decreto le imprese d’investimento e le banche devono: … b) acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati”).
[2] L’art. 27 del Regolamento CONSOB del 29 ottobre 2007, n. 16190 stabiliva che “tutte le informazioni, comprese le comunicazioni pubblicitarie e promozionali, indirizzate dagli intermediari a clienti o potenziali clienti devono essere corrette, chiare e non fuorvianti. Le comunicazioni pubblicitarie e promozionali sono chiaramente identificabili come tali. Gli intermediari forniscono ai clienti o potenziali clienti, in una forma comprensibile, informazioni appropriate affinché essi possano ragionevolmente comprendere la natura del servizio di investimento e del tipo specifico di strumenti finanziari interessati e i rischi ad essi connessi e, di conseguenza, possano prendere le decisioni in materia di investimenti in modo consapevole. Tali informazioni, che possono essere fornite in formato standardizzato, si riferiscono: a) all’impresa di investimento e ai relativi servizi; b) agli strumenti finanziari e alle strategie di investimento proposte, inclusi opportuni orientamenti e avvertenze sui rischi associati agli investimenti relativi a tali strumenti o a determinate strategie di investimento; c) alle sedi di esecuzione e d) ai costi e oneri connessi“.
[3] Art. 23, comma 6, T.U.F.: “Nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta”.
Gli obblighi informativi dell’intermediario e responsabilita’
Nelle controversie in materia di lavoro, molto spesso il datore di lavoro e il lavoratore decidono di soddisfare le proprie pretese in sede stragiudiziale, attraverso i cd. accordi transattivi[1]. I motivi di tale scelta sono principalmente i costi che deriverebbero dal contenzioso giudiziale e l’alea dello stesso.
Tuttavia, non sempre è facile comprendere la portata degli effetti fiscali che caratterizzano l’accordo de quo, soprattutto quando questo negozio viene utilizzato per estinguere il rapporto di lavoro tra le parti e riconoscere un risarcimento danno al dipendente.
La problematica della assoggettabilità a tassazione delle somme percepite a titolo di risarcimento del danno è legata principalmente al dato testuale della disciplina legislativa in materia e, in particolare, degli artt. 6, 17 e 51 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (Tuir).
L’art. 6, comma 2, Tuir, infatti, stabilisce che solo “i proventi conseguiti in sostituzione di redditi (…) a titolo di risarcimento dei danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti”.
Purtroppo, attorno all’infelice formulazione del citato articolo, si sono generati nel tempo molti dubbi, soprattutto se si confronta la disposizione suddetta a quella contenuta nell’art. 17 del medesimo Testo Unico, che, invece, sottopone a tassazione separata (considerandoli, pertanto, imponibili) il “trattamento di fine rapporto di cui all’articolo 2120 del codice civile e indennita’ equipollenti (…); altre indennita’ e somme percepite una volta tanto in dipendenza della cessazione dei predetti rapporti, comprese l’indennita’ di preavviso, le somme risultanti dalla capitalizzazione di pensioni e quelle attribuite a fronte dell’obbligo di non concorrenza ai sensi dell’articolo 2125 del codice civile nonche’ le somme e i valori comunque percepiti, al netto delle spese legali sostenute, anche se a titolo risarcitorio o nel contesto di procedure esecutive, a seguito di provvedimenti dell’autorità giudiziaria o di transazioni relativi alla risoluzione del rapporto di lavoro dell’autorita’ giudiziaria o di transazioni relativi alla risoluzione del rapporto di lavoro (lett. a) e “le indennità spettanti a titolo di risarcimento, anche in forma assicurativa, dei danni consistenti nella perdita di redditi relativi a più anni” (lett. i), o, ancora, a quella di cui all’art. 51, comma 1, che stabilisce che il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro.
Si è posto, quindi, il problema di definire la natura delle indennità percepite in relazione più o meno stretta con il rapporto di lavoro per stabilire se le medesime siano da considerare risarcimenti esenti da imposta, ai sensi dell’art. 6, ovvero risarcimenti dei danni consistenti nella perdita di redditi relativi a più anni, sottoposti a tassazione separata ex art. 17, o somme percepite in dipendenza del rapporto di lavoro, sottoposte a tassazione ordinaria dall’art. 51.
All’esito di un fervido dibattito giurisprudenziale e di un processo elaborativo con cui è stata recepita dalla giurisprudenza tributaria la distinzione di danno tipicamente civilistica, si è giunti alla conclusione che è escluso, in via generale, dalla nozione di reddito l’indennizo qualificabile come mera reintegrazione patrimoniale che non rappresenti un flusso di reddito nuovo (cd. danno emergente), mentre restano assoggettati a imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) quegli indennizzi risarcitori del lucro cessante, in quanto emolumenti sostitutivi di un reddito che il danneggiato non ha potuto conseguire per effetto dell’evento lesivo.
Una volta chiarita la non tassabilità del c.d. danno emergente, la giurispudenza si è poi occupata di inquadrare le differenti tipologie di indennità percepite in occasione del rapporto di lavoro in una o nell’altra fattispecie di danno.
Ma, attulamente, l’intertevento giurisprudenziale non è affatto risolutivo sul tema, permanendo una grande incertezza sull’argomento.
Ancora oggi, infatti, nonostante vi siano numerosissime pronunce orientate a riconoscere le somme erogate dal datore di lavoro a seguito di licenziamento ingiustificato quale risarcimento del danno emergente, si contrappone un diverso filone che propende, piuttosto, per il riconoscimento, nelle medesime ipotesi, di un lucro cessante.
In questa operazione ermeneutica, allora, è fondamentale il ruolo del contribuente stesso che abbia avanzato istanza di rimborso danni, atteso che è proprio il lavoratore-contribuente a dover fornire un’adeguata prova circa la natura di danno emergente della voce risarcitoria ottenuta, quali, ad esempio, i certificati medici, le perizie medico-legali, oppure eventuali denunce/diffide formulate.
E tale onere è stato espressamente attribuito al lavoratore dai Giudici della Suprema Corte di Cassazione Sezione Tributaria, i quali hanno stabilito che alla somma versata al lavoratore, a fronte di definizione transattiva della controversia relativa alla cessazione del rapporto, deve essere presuntivamente attribuita, al di là delle qualificazioni formalmente adottate dalle parti, la natura di ristoro della perdita delle retribuzioni che la prosecuzione del rapporto avrebbe implicato, e, quindi, di risarcimento di un danno qualificabile come lucro cessante, con conseguente applicabilità dell’art. 6 citato (cfr. Cass. Sez. Trib., sentenza 24.09.2003, n. 14167).
L’unica fattispecie in cui, allo stato, si registra una certa uniformità di orientamento è quella del danno biologico, figura di creazione dottrinale-giurisprudenziale, ritenuta non tassabile, in quanto considerato lesione alla salute – tutelato dall’art. 31, comma 1, Cost. non solo come interesse della collettività, ma anche come diritto fondamentale dell’individuo – che altera l’equilibrio psicofisico della persona, in grado di provocare ripercussioni negative in ogni ambito, anche personale e familiare, in cui si svolge la personalità dell’individuo.
Pertanto, in virtù di tale natura, il danno biologico rappresenta una categoria a sè stante, che si differenzia, cioè, sia dalle conseguenze squisitamente economiche (derivanti dalla effettiva riduzione dei redditi o dalla ridotta capacità di guadagno), sia dalle sofferenze di ordine puramente morale.
Per tale fattispecie, addirittura, la giurisprudenza di legittimità ha previsto l’inversione dell’onere in capo all’ufficio fiscale, che deve provare, qualora nel verbale di conciliazione/transazione sia indicato che l’importo è corrisposto al lavoratore per il ristoro del danno biologico, che invece tale somma è stata corrisposta per un titolo diverso (cfr. Cass. Sez. Trib., sentenza 23.09.2016 n. 18629).
In conclusione, essendo la materia piuttosto delicata, è consigliabile la massima prudenza in sede di redazione dell’accordo transattivo qualora vi sia una pretesa risarcitoria da liquidare, cercando di precisare nel testo quanti più fatti e circostanze comprovanti la natura del danno non patrimoniale, al fine di evitare che esso venga considerato lucro cessante e, quindi, tassabile.
Avv. Romina Zanvettor
Avv. Alessandra Tagliapietra
[1] L’istituto della transazione è disciplinato all’art. 1965 c.c., che dispone: “La transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro.
Con le reciproche concessioni si possono creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti”.
Profili fiscali delle transazioni in materia di lavoro e relative problematicita’
Il tema dell’energia, in particolare lo sviluppo e l’implementazione delle rinnovabili, sta fornendo numerosi spunti di discussione per tutti gli esperti del settore.
Negli ultimi mesi, grazie alla spinta comunitaria e, di riflesso, quella nazionale, si sta riattivando un intenso dibattito in materia di energie rinnovabili.
Sono, in particolare, le prospettive future del mercato dell’energia a tenere banco.
Lo scopo delle discussioni in corso non è semplicemente quello di fotografare le tendenze in atto, bensì, soprattutto, quello di concorrere a informare i diversi operatori su tematiche di cui, a oggi, si parla ancora molto poco e, grazie a ciò, partecipare al cambiamento energetico.
Con il presente approfondimento, quindi, riepilogando brevemente alcuni aspetti già trattati in passati contributi, si intende, per quanto possibile, concorrere attivamente a una tale transizione.
È doveroso, in primo luogo, accennare brevemente ai due documenti, uno di matrice comunitaria (Clean energy package) e uno nazionale (SEN 2017), che costituiscono le “Stelle Polari” del futuro percorso energetico intrapreso, non solo dall’Italia, ma, più in generale, da tutti i Paesi membri dell’Unione Europea.
Il Clean energy package (per una sintesi si rinvia al seguente link: http://www.assorinnovabili.it/public/sitoaper/FontiRinnovabili/paper/2017/Sintesi_aR_winter_package_def.pdf) si sostanzia in un pacchetto di proposte legislative presentate a fine 2016 dalla Commissione Europea, il cui spirito è di guidare la produzione energetica verso gli obiettivi 2030 di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, di efficienza energetica e diffusione delle rinnovabili.
In tale ottica, va poi collocata la SEN 2017-2030, ossia la “Strategia Energetica Nazionale” adottata dal Governo italiano lo scorso novembre. Tale documento, in particolare, sancisce una serie di obiettivi che, espressione delle politiche comunitarie, dovranno essere implementati nel nostro ordinamento entro il 2030.
Si ricorda, a esempio, che tra le azioni irrinunciabili delineate dalla Strategia vi sono lo sviluppo delle rinnovabili (su tutte, quelle elettriche), l’impegno politico alla de-carbonizzazione del sistema energetico entro il 2025 e iniziative volte a migliorare efficienza e sicurezza energetica del nostro Pese.
Ebbene, a fronte di tali ambiziosi obiettivi (va ricordato, per la verità, che alcuni operatori del settore lamentano che si “potrebbe fare di più”), ci si è iniziati a interrogare su quali strumenti impiegare per poterli realizzare.
Non v’è dubbio che, in questa prima fase, si sia iniziato a guardare altrove, analizzando e approfondendo alcuni modelli, attualmente sconosciuti o di scarsa applicazione nel nostro sistema, che, come spesso capita, hanno già conosciuto un positivo riscontro in altri Stati dell’Unione Europea.
E infatti, è lo stesso Clean energy package a spingere verso nuove configurazioni dei mercati energetici; nello specifico, essendo stato posto al centro dell’intera struttura il concetto di autoconsumo, si potrebbe sintetizzare che, in futuro, se la svolta dovesse realmente verificarsi, saremo tutti auto-consumatori.
In altre parole, il nuovo assetto dovrebbe caratterizzarsi per il superamento di un mercato accentrato e controllato da poche compagnie elettriche, a favore di una generazione orizzontale, in cui vi sarà un’interazione sempre più forte e diretta tra produttori e consumatori diffusi sul territorio.
A sostegno di ciò, le linee guida del Clean energy package non solo premono per l’eliminazione di oneri e procedure che non siano cost-reflective, ma anche per la nascita di un mercato energetico i cui prezzi non siano più imposti “dall’alto”, bensì vengano liberamente determinati dall’incontro di domanda e offerta.
Grazie a questa visione innovativa, dunque, stanno iniziando ad affermarsi nuove figure in campo energetico: ci si riferisce, in particolare, ai prosumer.
Ebbene, il prosumer è un cliente attivo che consuma energia (la può comprare da solo o in gruppo), la auto-produce all’interno di un’area geografica limitata e può anche accumularla e venderla, a condizione che ciò non sfoci nella sua attività economica principale.
Si precisa, infine, che il prosumer può avere una configurazione tanto individuale quanto collettiva.
Quest’ultima, diffusa prevalentemente all’estero, dove in molti Paesi sta prendendo piede il modello del cd. “condominio elettrico”, in Italia fa molta fatica a imporsi a causa della normativa presente.
Infatti, attualmente, l’unica configurazione possibile è la cd. “one to one”, nel senso che un solo impianto può alimentare una sola utenza; si è, quindi, ben lontani dal dare una soluzione definitiva alla cd. “questione dello sblocco dei sistemi di distribuzione chiusi”, forse anche perché, dicono alcuni esperti, sono ancora eccessivamente sottovalutate le implicazioni positive derivanti dalla condivisione dell’energia generata da un impianto, preferibilmente a fonte rinnovabile, da più utenze di una stessa area.
Sennonché, grazie alla SEN e ad alcune recenti delibere di ARERA, si sta timidamente verificando anche l’apertura verso configurazioni “one to many”, ovvero verso sistemi di distribuzione multiutente, a condizione che non si tratti di utenze domestiche (a esempio, in un centro commerciale oppure zone industriali).
Tale assetto, tuttavia, dovrà parallelamente essere accompagnato da un adeguato sviluppo dei cd. aggregatori, ossia coloro che accorpano l’energia prodotta o consumata da più utenti della rete, con ciò consentendo a tutte quelle utenze che non hanno la possibilità di partecipare al mercato del dispacciamento (perché, ovviamente, incapaci da sole di mobilitare volumi sufficienti di energia), di prendervi parte in quanto aggregate.
Ritornando per un attimo al modello “one to one”, tre sono le modalità essenziali attraverso cui può essere fatto autoconsumo: in primo luogo, il prosumer può essere, al contempo, sia proprietario che gestore dell’impianto. In tal caso, le eccedenze saranno vendute alla rete da quest’ultimo; ancora, l’impianto può essere concesso in locazione operativa dall’investitore o dall’impiantista al prosumer, a cui spetterà di vendere le eccedenze; infine, il prosumer può concedere all’investitore o all’impiantista, a esempio, il tetto per la realizzazione dell’impianto. Sarà l’impiantista (o l’investitore) a vendere l’energia al prosumer (a un prezzo più basso di quella di rete) e, per quanto riguarda la vendita dell’eccedenza, questa avverrà conformemente al contenuto dell’accordo intercorso tra le parti.
Auspicando, per il futuro, una maggiore diffusione del cd. autoconsumo collettivo (ossia delle cd. energy communities), rendendo così effettive nel nostro sistema le linee guida del Clean energy package, va ricordato che fare autoconsumo in Italia è, a oggi, considerato comunque molto vantaggioso: infatti, oltre a non dovere, in tal caso, prelevare energia dalla rete, si consideri, altresì, che l’energia auto-consumata non è soggetta al pagamento di oneri di sistema e dispacciamento in componente variabile, oneri di trasmissione e diffusione in componente variabile e, se produttore e consumatore coincidono, accise.
A tal proposito, tra le novità positive in materia di autoconsumo, non può, infine, non essere menzionata la riforma delle tariffe non domestiche, avvenuta nel dicembre 2017 (con delibere 922 e 923/2017 di ARERA), con la quale si è stabilito che parte prevalente degli oneri di sistema rimane legata alla componente variabile (quella correlata al consumo) della bolletta e, quindi, di fatto, vi è l’esenzione (del pagamento) per la parte dell’energia auto-consumata.
Avv. Romina Zanvettor
Dott. Marco De Nadai
Le nuove frontiere del mercato dell’energia
Il fatto: una società di gestione di impianti per l’energia alternativa, che chiameremo Alfa, ha sottoscritto un contratto di locazione finanziaria a tasso variabile con Beta, società di locazione finanziaria, per l’acquisto di un impianto fotovoltaico. In una delle Appendici del contratto, nemmeno firmata, è stata anche inserita una clausola limitativa di indicizzazione, che prevede il ricalcolo in diminuzione sino a un massimo di tre punti percentuali rispetto all’indice base di riferimento.
Ebbene, mentre nel primo periodo la società Beta provvede, attraverso note di credito, a restituire ad Alfa interamente le somme totali risultanti dalla variazione % del tasso Euribor, dopo un anno circa, la società concedente inizia, sulla scorta della clausola summenzionata, a ricalcolare in diminuzione fino a un massimo di 3 punti percentuali, trattenendo, pertanto, una percentuale della variazione del tasso Euribor.
A seguito di una verifica, Alfa apprende di tale situazione e si avvede che, per effetto dell’appilcazione di questa clausola, Beta ha trattenuto, per mancato rimborso per indicizzazione del tasso d’interesse sopra i 3 punti percentuali, una ingente somma.
Come può tutelarsi Alfa?
Le contestazioni in diritto sono tre.
1) Mancanza di sottoscrizione dell’Appendice del contratto di locazione finanziaria.
Il contratto va considerato in ogni sua parte e, quindi, si deve tenere conto anche delle condizioni generali e degli allegati che formano l’insieme unitario dello stesso. In particolare, per “allegato” o “appendice” costituente parte integrante del testo principale, si intende ogni documento che non assume il ruolo di mero dettaglio rispetto al contenuto principale, ma, anzi, diviene esso stesso una scrittura principale collegata al primo da un rapporto di interdipendenza. In questo caso, dunque, il testo contrattuale va valutato nella sua interezza.
Nei contratti formali, ogni parte del contratto complessivo e quindi anche la sua appendice, deve rivestire la medesima forma prevista ex lege per il contenuto principale collegato e, nel caso in cui difetti del requisito suddetto richiesto, non può che ritenersi nulla.
Sebbene il contratto di locazione finanziaria (c.d. “leasing”) non sia di per sè soggetto a speciali vincoli formali, la necessità di adottare la forma scritta ad substantiam si palesa in relazione allo specifico oggetto della negoziazione, in combinazione con l’aspetto relativo alla durata: in tali casi dovrà applicarsi la regola generale dei contratti di locazione di cui al n. 8 dell’art. 1350 c.c., dovendo, per l’effetto, essere stipulato per iscritto a pena di nullità e anche i pedissequi allegati seguiranno la medesima fattezza.
Nel caso in esame, quindi, l’Appendice del contratto di locazione finanziaria, contenente la clausola di indicizzazione oggetto della vertenza, non essendo stata sottoscritta da Alfa, non attesta validamente la volontà delle parti di aderire e assoggettarsi alle indicazioni ivi contenute e va considerata nulla.
2) Vessatorietà/onerosità della clausola dell’Appendice.
In ogni caso, la clausola appare notevolmente onerosa per Alfa, potendo la stessa agilmente rientrare nella categoria delle clausole vessatorie. http://www.altalex.com/tag/clausole-vessatorie
La disciplina generale delle clausole c.d. “vessatorie” è prevista dagli artt. 1341 e 1342 c.c. In particolare l’art. 1341, comma 2, c.c., dispone che “in ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria“.
La crescente diffusione dei c.d. “contratti per adesionem”, generalmente stipulati con soggetti che offrono i propri servizi a condizioni predeterminate su moduli o formulari, a cui l’altro contraente si limita ad aderire automaticamente mediante una sottoscrizione, ha spinto il legislatore a cercare di sanare questo squilibrio, prevedendo una maggiore tutela nei confronti della parte più debole contrattualmente, soprattutto in considerazione di queste clausole.
Nel caso che ci occupa, l’accordo negoziale tra Alfa e Beta, è stato certamente formalizzato con la modalità sopra descritta, poiché è stato predisposto unilateralmente dalla seconda e Alfa non ha negoziato alcunchè. A nulla rileva che tra le parti sia stato pattuito un indice preciso di riferimento, dal momento che essa consistite in una mera osservazione di prassi contrattuali delle locazioni finanziarie, ovverosia l’utilizzo, quale indice base di riferimento, l’Euribor/360 3 MESI media del mese precedente.
Infatti, come la Cassazione ha avuto modo di affermare in plurime occasioni: “la predisposizione dell’intero testo contrattuale con clausole uniformi per una pluralità considerevole di rapporti ad opera della parte dominante integra gli estremi della fattispecie disciplinata dall’art. 1342 c.c. dal quale si richiede, per rinvio recettizio al comma 2 dell’art. 1341 c.c., la specifica approvazione per iscritto delle clausole vessatorie”(Cass. Civ., n. 3669/1999). E ancora occorre che “le condizioni generali siano determinate, mediante appositi strumenti (moduli o formulari) in vista dell’utilizzazione per una serie indefinita di rapporti senza che all’altro contraente sia utilmente consentito di richiedere ed apportare eventuali modifiche” (cfr Cass. n. 3184/2006 e n. 4241/2003).
Non vi è dubbio alcuno, inoltre, che la clausola in essa contenuta, prevedendo un conguaglio della variazione del parametro Euribor fermo a un massimo di tre punti percentuali, determini un forte squilibrio economico tra le parti.
Affinchè una clausola contrattuale possa considerarsi vessatoria o onerosa, infatti, deve comportare l’alterazione del sinallagma contrattuale ed essere riconducibile alle ipotesi di vessatorietà previste dal codice. Sono, cioè, tali quelle clausole contrattuali determinanti uno squilibrio di diritti e obblighi tra i soggetti del contratto.
Sebbene l’art. 1341 c.c., comma 2, abbia carattere tassativo, è ammessa l’interpretazione estensiva per tali categorie, “purchè l’ipotesi non espressamente prevista in detta norma sia accomunata a quelle contemplate dalla medesima ratio, cioè dall’esigenza di tutela del contraente in situazioni per lui sfavorevoli” (ex pluribus: Cass. n. 8062/1987; Cass. n. 14038/2013, Cass. n. 11757/2006, Cass. n. 9646/2006).
Alla luce di ciò, è evidente che il ricalcolo in diminuzione fino a un massimo di tre punti percentuali sia eccessivamente oneroso per Alfa, atteso che, in occasione della sua applicazione, la medesima società si è vista trattenere ingiustificatamente somme elevate.
La nullità di tale clausola, in sostanza, deriva dalla mancanza di bilateralità nella distribuzione del rischio della variazione del costo del denaro: tale clausola realizza un trasferimento senza alcun limite ad Alfa degli andamenti sfavorevoli del mercato, garantendo, per contro, a Beta un indice di redditività dell’operazione derogabile solo e sempre in melius.
3) Mancata specifica approvazione per iscritto e conseguente nullità.
Per poter essere considerate valide e vincolanti nei confronti dell’altro contraente, poi, le clausole vessatorie/onerose abbisognano di una specifica approvazione scritta, a pena di nullità, che attesti la consapevolezza e la volontà della parte contrattualmente debole di assumere un obbligo oggettivamente gravoso: esse, infatti, devono essere tenute distinte dalle altre clausole ed essere indicate precisamente per suscitare l’idonea attenzione del sottoscrittore, non potendo nemmeno ritenersi sufficiente la loro elencazione numerica cumulativa (cfr. Cass. Civ., n. 9492/2012; Cass. Civ., n. 16417/2009; Cass. Civ., n. 4452/2006).
Costituisce, infatti, ormai ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo cui l’adempimento della specifica approvazione per iscritto delle clausole vessatorie può dirsi assolto solamente in presenza di approvazione specifica, autonoma e distinta dalle altre condizioni contrattuali, che permettano di porre l’attenzione del contraente verso il significato di siffatte clausole a lui sfavorevoli (cfr. Cass. Civ., n. 2970/2012).
Tale esigenza è soddisfatta, in sostanza, quando le modalità poste in essere non rendono difficoltosa la selezione e la conoscenza da parte del sottoscrittore delle clausole suddette e quando le tecniche redazionali scelte risultano idonee a far intendere a questi l’esatto significato di ciò che è chiamato a sottoscrivere.
Nel caso di specie, l’accordo negoziale predisposto unilateralmente da Beta avrebbe dovuto recare la specifica indicazione e sottoscrizione della clausola vessatoria contenuta all’Appendice, in ossequio al disposto dell’art. 1341, comma 2 c.c.. L’assenza del suddetto requisito la rende irrimediabilmente nulla, con conseguente restituzione ad Alfa di quanto indebitamente trattenuto negli anni dalla Beta.
Avv. Romina Zanvettor
Avv. Alessandra Tagliapietra
Il caso del mese: vessatorieta’ delle clausole contenute nell’appendice di un contratto di Leasing finanziario
La Strategia Energetica Nazionale, entrata in vigore lo scorso novembre, è più che mai al centro del dibattito degli esperti del settore.
In particolare, si è sottolineato che gli obiettivi delineati dalla SEN (si pensi, tra i tanti, al solo impegno politico di dismettere le centrali alimentate a carbone al 2025) non sarebbero accompagnati da strumenti idonei a una loro adeguata implementazione entro il 2030.
E, infatti, per quanto concerne l’ambito del fotovoltaico, se è vero che l’Italia è uno dei primi Paesi europei per sviluppo e diffusione di tale tecnologia è parimenti vero che, all’attuale tasso di crescita, non verranno mai raggiunti i target prefissati senza l’accompagnamento di politiche ambiziose e innovative.
Sul punto, molte osservazioni (per un approfondimento del tema si rinvia al seguente link: http://www.solareb2b.it/wp-content/uploads/2018/05/decreto_FER_Italia_Solare.pdf) sono state portate all’attenzione degli organi competenti (Governo, Arera e Gse) in merito al cd. Decreto Fer, non ancora definitivamente approvato, il quale dovrebbe dare una spinta decisiva, nel prossimo futuro, allo sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili nel nostro Paese.
A esempio, è stata sottolineata l’assoluta carenza del Decreto in materia di autoconsumo e mobilità elettrica, considerato che non sono stati previsti premi specifici per questi due “meccanismi”.
Ancora, è stata aspramente criticata la mancata previsione, nel Decreto medesimo, di strumenti incentivanti per la rimozione e bonifica dell’amianto.
Da ultimo, per quanto riguarda il tema delle aree agricole, si è chiesto di far rientrare i capannoni agricoli nella lista dei “siti” ove poter installare impianti fotovoltaici incentivati, nonché di individuare, tra le aree agricole, quelle prive di alcuna potenzialità produttiva, quindi tali da poter essere “occupate” da impianti fotovoltaici o altre fonti di produzione di energia pulita, senza perciò compromettere la filiera agro-alimentare.
Le critiche al Decreto Fer, cui si è brevemente accennato, rappresentano soltanto una parte del dialogo in atto, in questi mesi, sulle rinnovabili.
Molti operatori del settore hanno posto l’accento sulla necessità di diffondere, anche nel nostro ordinamento, alcuni strumenti (autoconsumo collettivo, PPA e aggregatori) che, in altri Paesi, sono già stati (sia pure con divergenze di regolamentazione) testati positivamente.
Ciò, in coerenza con la normativa comunitaria del settore (Clean Energy Package) che, senza ombra di dubbio, valorizza, in ottica futura, l’autoconsumo di energia ed il ruolo attivo dei consumatori di energia sui mercati.
Alla luce di questi punti cardine stanno emergendo nuove figure in campo energetico; di particolare rilievo è quella del “prosumer”, ossia colui che, al tempo stesso, è produttore e consumatore di energia.
Questa tendenza in atto, spingendo verso il superamento del vecchio paradigma di mercato, accentrato e controllato da poche grandi compagnie energetiche, ha delineato il solco verso una generazione elettrica “distribuita” e “policentrica”.
Espressione di un tanto è il caso dell’autoconsumo collettivo, a oggi ancora vietato in Italia poiché un solo impianto può servire un solo utente, che in diversi Paesi europei (Austria, Francia, Germania, Portogallo) ha aperto la strada al cd. “condominio elettrico”.
Sul punto, tuttavia, giova rammentare che Arera, da dicembre scorso (delibera del 21 dicembre 2017), ha ampliato le possibilità del cd. autoconsumo, ammettendo, a esempio, che se i terzi consumano energia per esigenze complementari a quelle del cliente finale, ciò vada considerato quale unica utenza e, inoltre, che gli impianti di un condominio in aree condominiali possono essere serviti dalla rete elettrica del condominio medesimo.
E ancora, è la stessa Strategia Energetica Nazionale a sollecitare l’approvazione di normative per consentire sistemi multiutente in aree commerciali e/o industriali, ove l’energia prodotta da un impianto possa essere trasferita a più clienti (purché non si tratti di clienti residenziali).
Facendo un esempio pratico, quindi, seguendo tale ultimo modello, in un centro commerciale, impiegando un unico impianto, oltre alla galleria potrà essere rifornito di energia anche il supermercato.
Inoltre, si è segnalata l’esigenza di una maggior conoscenza dei PPA (Power purchase agreement), ossia contratti a medio/lungo termine (anche 10 anni) con i quali un soggetto produttore vende l’energia prodotta dal proprio impianto a un grossista/trader, il quale, a sua volta, provvede a valorizzarla sul mercato elettrico.
Si è ipotizzato che, a seguito dei primi progetti-test con impianti di medie e grandi dimensioni (nel 2019), il mercato italiano sarà maturo, nel 2020, per numeri importanti anche con impianti di piccole dimensioni, grazie anche alla riduzione dei costi dei componenti fotovoltaici.
Infine, nel 2021, sarà dato avvio alla piattaforma di negoziazione e avverrà la stipula dei primi contratti corporate PPA, che ridurranno anche il rischio di volatilità (dei prezzi) per tutti gli interpreti dei progetti.
Tali schemi contrattuali, si è evidenziato, dovrebbero essere implementati anche con clienti energivori (ossia a valle della filiera).
In questo secondo caso (anche detto PPA in linea diretta) il rapporto di fornitura intercorrerebbe esclusivamente tra il produttore di energia e il consumatore e non verrebbe utilizzata la rete pubblica di trasporto dell’energia.
I principali ostacoli a una loro diffusione sono rappresentati, tuttavia, dalla mancanza di informazione, nel nostro Paese, sui PPA e, inoltre, dal fatto che si è avversi ad una visione cd. “long term”, necessariamente sottintesa alla stipula di queste nuove tipologie di negozio.
Sarà decisiva, a tal proposito, la regia dello Stato, che dovrà considerare la possibilità di incentivare contratti “PPA”, anche attraverso il riconoscimento di sgravi fiscali della stessa durata di un PPA.
Da ultimo, un veloce accenno deve essere fatto con riguardo ai cd. “aggregatori” che, sempre per effetto della spinta comunitaria, potrebbero diffondersi in Italia nei prossimi anni.
Tale figura (un trader oppure un soggetto da esso abilitato), nello specifico, si occuperebbe di combinare i carichi di consumo o l’energia generata da più clienti, per l’acquisto o la vendita di energia nel mercato elettrico e, in particolare, sui mercati dei servizi alle reti (dispacciamento).
Tale innovazione porterebbe con sé numerosi vantaggi: a esempio, proprio perché verrebbero movimentati volumi sufficienti di energia, sarà consentito ai clienti finali, che hanno impianti fotovoltaici e/o impianti di stoccaggio e/o capacità di modulare i propri carichi elettrici, di partecipare al mercato del dispacciamento.
Ovviamente, per importare anche questo modello nel nostro ordinamento, saranno necessarie non solo una conoscenza e informazione adeguate ma, altresì, una forte volontà politica in tal senso.
Avv. Romina Zanvettor
Dott. Marco De Nadai
SEN 2017-2030: gli spunti in discussione per il perseguimento degli obiettivi
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Il Decreto FER disciplina anche il fotovoltaico.
La Commissione Europea, nelle linee guida del 2014, ha chiarito che le tariffe incentivanti vengono riconosciute per la produzione di energia da qualsiasi fonte rinnovabile, senza alcuna discriminazione.
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